Quello che rende questa tornata elettorale per il Rettorato assai diversa dalle precedenti è l’intreccio, talvolta inestricabile, tra la dimensione locale dell’appuntamento e i fattori esterni ad esso:nazionali, ma non solo. Vedo tre aree di crisi in questo intreccio, punti di rottura su cui si scaricano le tensioni e rispetto ai quali occorrerà misurare programmi e candidature: i processi di privatizzazione del sapere e della conoscenza, la riforma dei modelli di gestione dell’Università e quindi dell’autogoverno democratico e della partecipazione, il rapporto con quell’entità sfuggente e sempre priva, nel dibattito pubblico, di connotazioni nette che va sotto il nome di territorio. Continua a leggere...
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Resta inteso che si tratta di un elenco approssimato per difetto: ma da qui converrà partire, per fornire una cornice unitaria ad una discussione che in più occasioni mi sembra correre il rischio della frantumazione su una serie di micro-rivendicazioni o, al contrario, di non percepire quanto le nostre vicende siano collegate a, e condizionate da, tendenze in atto all’interno di un più vasto scenario.
Parlare di privatizzazione del sapere e della conoscenza significa porsi la domanda sul perché la qualità del sistema pubblico dell’istruzione superiore sia scaduta fino al punto indicato dalle classifiche internazionali, a partire dall’OCSE. Attraverso politiche progressive di riduzione della spesa e degli investimenti, di precarizzazione dei rapporti di lavoro nel settore della ricerca, di spostamento dei centri di eccellenza al di fuori del circuito pubblico, l’Università statale ha perduto soprattutto la sua capacità di garantire il diritto costituzionale al sapere come uno dei diritti fondamentali dell’individuo, posto a fondamento dell’esercizio dei diritti di cittadinanza democratica. Se vogliamo invertire questa tendenza, o perlomeno provarci a contrastarla, dovremmo allora chiederci quali delle nostre decisioni, nella storia recente dell’Università del Salento, abbiano contribuito, magari involontariamente, ad alimentare la spirale perversa della dequalificazione, quel processo che, ad esempio, ha fatto la fortuna del sottobosco dei Master post-laurea: delusi nelle loro aspettative di professionalizzazione al termine del canonico 3+2, è proprio a questi Master che una quantità crescente di laureati si rivolge, nella speranza, spesso illusoria, di conquistare quello che l’Università pubblica avrebbe dovuto erogare, cioè formazione di qualità. Abbagliati dall’equazione che legava crescita dell’offerta formativa e qualità della stessa, abbiamo tutti partecipato al banchetto della moltiplicazione delle Facoltà e dei Corsi di Laurea, piuttosto che porci il problema di arricchire i servizi agli studenti, sostenere con forme adeguate di tutorato il loro percorso di studi, riconoscere a docenti troppo oberati di didattica che fare buona ricerca è importante quanto fare buona didattica e che dunque è inimmaginabile che ci siano professori impegnati in aula per più di 200 ore all’anno, come purtroppo avviene in centinaia di casi. E’ attraverso questo svuotamento della qualità che abbiamo contribuito, anche qui, dalla nostra postazione decentrata, a convincere un numero crescente di studenti che occorre rivolgersi alle Università private da 8.000 e passa euro di retta annuali se vogliono accedere al sapere ed alla conoscenza come forma di avanzamento sociale: rette che tagliano ogni retorica sull’uguaglianza di opportunità, per ricordarci che in Italia, e nel Salento, ancora oggi lo studio tende a mantenere e rafforzare quelle che una volta si sarebbero definite diseguaglianze sociali, non a ridurle. Lavorare sulla qualità della formazione, e questo è dunque il primo punto di criticità, significa impegnarsi a contrastare la perdita di centralità della conoscenza come bene comune non assoggettabile alle vocazioni neoliberiste centrate sul mercato e sulle sue dinamiche, anche simboliche.
La vocazione neoliberista, che produce in sé la metafora del capitano d’impresa come modello di governance, ha prodotto opacità nei meccanismi di governo, ed un generale scadimento della qualità della democrazia interna all’Università. Anche qui, l’Università è in buona compagnia, e riflette al proprio interno tendenze generali che puntano allo svuotamento delle istituzioni rappresentative su base elettorale universale. Penso alle impressionanti specularità tra fenomeni e processi in apparenza diversi: la verticalizzazione del governo degli Enti Locali con Sindaci, Presidenti e Governatori sempre più capaci di sottrarsi al controllo dei rispettivi Consigli fa il paio con la perdita di centralità del Senato Accademico e del Consiglio di Amministrazione, organi-guscio deprivati quasi di effettivo potere. Fa impressione leggere nel documento approvato pochi giorni fa dal Consiglio della Facoltà di Scienze frasi sull’approvazione di atti non sufficientemente conosciuti dai componenti dei due organismi di governo: ma sulla base di cosa hanno votato ed approvato, allora? E’ normale, in queste condizioni, che in tutti gli Atenei, davvero con poche eccezioni, si sia affermata la tendenza ad utilizzare con disinvoltura lo strumento delle modifiche statutarie per allungare il periodo di eleggibilità dei Rettori. Lecce, occorre dirlo, non è l’eccezione ma la regola: le sorti dell’istituzione tendono ad identificarsi sempre più strettamente con i profili individuali. Tutto questo non ha nulla a che fare con l’autogoverno democratico dell’Università, che consenta e promuova la partecipazione delle sue componenti. Vedo che emerge, finalmente, una diffusa sensibilità sulla centralità di questo punto, e sono personalmente favorevole all’ipotesi che il mandato del Rettore debba essere ridotto ad uno, a durata quinquennale e senza possibilità di ricandidatura.
Parola-totem, il territorio è lo scenario della più bruciante sconfitta che il principio dell’autogoverno universitario debba registrare nel proprio bilancio. Non so se a qualche fortunato collega sia capitato in sorte di poter ascoltare una definizione univoca e condivisa di che cosa si intenda con questo termine: a me, purtroppo, non è mai successo. Di volta in volta, e spesso in modo implicito e dato-per-scontato, l’espressione “rapporti col territorio” ha significato fabbisogni formativi ed occupazionali delle imprese e dei servizi, generica lettura di processi sociali, rinvio a presupposte tradizioni culturali, marketing e promozione, e via elencando. Il territorio inteso come rete di relazioni e di istituzioni non compare mai, o quasi mai, un territorio governato a più livelli da interconnettere, da far dialogare tra di loro. Esiste un organismo, il CURC, presieduto dal Governatore della Puglia e composto dai Rettori degli atenei regionali, che non ha mai affrontato la necessità che all’interno di un sistema decentrato ed autonomo si creassero momenti vincolanti di decisione e verifica, come ad esempio la creazione di consorzi obbligatori per la condivisione delle risorse umane, finanziarie, logistiche e strumentali da assegnare al sistema universitario pugliese. Questo organismo ha assistito impotente e spesso complice al frammentarsi delle sedi universitarie sul territorio regionale, al moltiplicarsi esponenziale dell’offerta formativa secondo una logica che vede l’autonomia come competizione e non come occasione per fare sistema, senza che nelle sue riunioni sia stata mai posta l’esigenza di andare verso un sistema regionale di valutazione della produttività degli investimenti pubblici nell’istruzione superiore. Abbiamo ASL e Comuni che elaborano i Piani di Zona senza che una Facoltà che prepara sociologi ed assistenti sociali sia neppure consultata per le competenze che esprime e che potrebbe mettere a rete; abbiamo aziende che, come documenta Eurispes, chiedono alle Università di attivare corsi a misura dell’evoluzione del mercato, ma che poi si rivelano assai restìe ad assumere laureati, mentre gli Atenei tendono a dimenticare che non si può programmare l’offerta formativa sulla base di un menù a la carte; abbiamo agenzie educative e media della comunicazione, che in modo sempre più interconnesso svolgono funzioni educative e sociali rilevanti, che procedono su percorsi nei quali l’Università entra, quando questo avviene, come temporaneo compagno di strada e non come interlocutore strategico. Questo non è territorio, questa non è programmazione, questo è spreco di risorse.
Questa fase, in cui le candidature ancora non prevalgono nell’attenzione dell’opinione pubblica, può essere un momento forse irripetibile per riconnettere l’Università al suo mondo vitale. Sui punti che ho indicato, e sui tanti altri che la discussione pubblica farà emergere, chiedo a quanti si presenteranno al corpo elettorale non solo di ascoltare chi nell’Ateneo vive e lavora, ma anche, e forse soprattutto, di aprire una stagione di ascolto verso la società salentina. Io non credo che esista, come pure si è detto, un problema di credibilità della nostra istituzione: ma di solitudine, questo si. Una solitudine che si è nutrita di illusioni sulla crescita senza fine ma che oggi, di fronte alla crisi del sistema-Paese, deve riconoscere la sua insufficienza strategica.
Luigi Spedicato
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