Le recenti vicende che hanno coinvolto l’Ateneo salentino possono essere inquadrate in un più ampio orizzonte interpretativo, fermo restando che naturalmente i dibattiti e le proposte sulla sua riorganizzazione interna – che abbiamo seguito fin qui - sono altrettanto importanti. Il collega Spedicato in suo recente intervento sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 12 settembre, ha ben posto i termini generali del problema, ed è a partire da quello scenario che proveremo a capire cosa sta succedendo. Partiamo da qualche dato. Continua a leggere...
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L’Ocse segnala che, in Italia, solo il 50% dei neolaureati riesce a trovare occupazione nel breve termine, che di questi, solo il 40% in modo stabile, e che, soprattutto, il 30% di essi svolge mansioni non conformi al percorso di studi seguito. Quest’ultima percentuale è notevolmente più elevata nel Mezzogiorno. L’ultimo Rapporto SVIMEZ (2007) registra che i meridionali emigrati nel Centro-Nord nel 2006 sono aumentati di 270.000 unità rispetto al 2005, di questi 120.000 a carattere permanente e 150.000 a carattere temporaneo. Siamo, quindi, di fronte a un duplice problema: i nostri laureati svolgono attività non conformi al titolo di studio acquisito – fenomeno noto come sottoccupazione intellettuale – oppure emigrano. I costi associati a questi fenomeni sono sostanzialmente due: in primo luogo, il Mezzogiorno spreca capitale umano; in secondo luogo, lo ‘regala’ ad altre aree del Paese o europee, con l’aggravante – si badi – che le rimesse degli emigrati danno un saldo netto negativo. In altre parole, e a differenza di quanto accadeva in passato, sono le famiglie d’origine a trasferire fondi ai propri figli. Tutto ciò al netto dei costi sociali ed esistenziali delle aspettative deluse e, molto spesso, della precarietà dell’impiego.
L’Università, ci dicono i Ministeri competenti da almeno un decina d’anni, è un’azienda, o dovrebbe esserlo. Ma è un’azienda che opera all’interno di un sistema di regole che, pure a fronte dell’autonomia, nelle sue parti fondamentali è uguale da Trento a Messina. Un’azienda (direbbe un addetto ai lavori) non fa altro che trasformare input in output. Gli input, nel caso in esame, sono gli studenti immatricolati; l’output è lo studente laureato. Per quanto questa logica possa sembrare aberrante, è quella nella quale siamo immersi e con la quale dobbiamo fare i conti.
Come dovrebbe, dunque, comportarsi un imprenditore (leggi: il Rettore) in siffatte condizioni? Per ‘vendere’ il prodotto – ovvero per laureare il massimo numero di studenti in corso, favorendone lo sbocco occupazionale – potrebbe teoricamente agire sui due ‘mercati’: limitare gli accessi e/o ampliare le possibilità di impiego. La prima mossa è decisamente impopolare, la seconda è in larga misura al di fuori del suo controllo. Non a caso, Spedicato richiama la retorica del ‘territorio’; contenitore – a suo dire – vuoto, categoria sulla quale fin qui le idee sono state piuttosto nebulose.
Il territorio salentino, ovvero il tessuto industriale che dovrebbe assumere i nostri laureati, è, come è noto, fatto di imprese di piccole dimensioni, poco esposte nel commercio internazionale, con tecnologie di retroguardia rispetto alle aree centrali del continente. Insomma, è un territorio, per lo più, fatto da imprese che non hanno bisogno di forza lavoro qualificata. Riqualificare la domanda di lavoro non è compito né del Rettore, né dei Presidenti di corso di laurea. O sono le aziende locali a trovare conveniente riconvertire i propri processi produttivi o è la mano pubblica a incentivarle a farlo.
Il nostro manager non avrebbe altra scelta se non ridurre gli ingressi, ma dato il vincolo delle resistenze sociali al numero chiuso. Dunque: una sola soluzione, ovvero chiudere Corsi di studio. Quali? Almeno per non perdere finanziamenti, ci si troverebbe a dover spegnere i corsi di studio che fanno registrare numeri eccessivi di studenti fuori corso; e, per realizzare la propria mission, sopprimere i curricula che non garantiscono sbocchi occupazionali.
Si dirà che – quello qui svolto - è un ragionamento biecamente economicista. E difatti volutamente lo è. Ma è un ragionamento che, a parere di chi scrive, riflette una realtà dura di un Mezzogiorno (e di un Salento) ormai collocato in una dimensione assolutamente marginale rispetto ai processi formativi e occupazionali delle aree centrali dello sviluppo capitalistico.
Ben venga, dunque, l’auspicata razionalizzazione dell’Università del Salento, e la sua moralizzazione, ma – ci pare – in fin dei conti dovremo prendere atto che l’Università italiana è, come la sua economia, un’Università a “doppia velocità”.
Guglielmo Forges Davanzati
(Docente di Economia Politica – Università del Salento)
Caro Guglielmo, quello che dici è in generale condivisibile. Alcune precisazione però vanno fatte:
1) non è aberrante che si consideri lo studente un "prodotto" almeno non più di quanto lo sia usare il termine "mercato del lavoro";
2)non è vero che l'Università non possa favorire lo sbocco occupazionale dei propri laureati agendo da "agenzia di collocamento".
Innanzitutto come diceva il rettore Rizzo, ad ogni attivazione di un nuovo corso di laurea deve seguire una animazione del territorio volta a fare conoscere e promuovere il prodotto: lo studente.
Per quanto mi riguarda questa esperienza di collocamento l'ho svolta in maniera dilettantesca negli ultimi 10 anni con un certo successo. Ho traccia di quasi tutti i miei tesisti (circa 100) in relazione alla loro prima occupazione. Di questi circa il 30% ha trovato lavoro grazie ai contatti tra domanda e offerta che io stesso ho favorito (raramente sono stato ringraziato!).
Il nuovo rettore penso che dovrà organizzare un ufficio in grado di tracciare l'occupazione in termini di qualità, posizione geografica e stipendio per monitorare il legame tra mercato del lavoro e formazione fornita dalla nostra Università. L'analisi di questi dati potrà (7-10 anni però!) poi servire a modificare ed ottimizzare l'offerta formativa.
Non ci deve scandalizzare che il 90% degli studenti si iscrive all'Università per trovare un lavoro adeguato alla qualifica professionale che ha conseguito e con uno stipendio più alto di quello che avrebbe potuto ottenere rinunciando agli studi universitari.
Alfonso Maffezzoli
alfonso.maffezzoli@unile.it
Caro Alfonso,
accolgo volentieri i tuoi rilievi, anche perché segnalano molto correttamente uno stato di fatto.
a) L'assimilazione dell'Università a un'azienda è ritenuta "aberrante" soprattutto da molti colleghi di area umanistica, ovviamente non solo nel nostro Ateneo. Ricordo le reazioni sconcertate di molti 'umanisti' alle lezioni per docenti autovalutatori del CampuOne quando i nostri docenti - per lo più ingegneri - ci invitavano a parlare di output con riferimento ai laureati. Per quanto mi riguarda, penso che dovremmo prendere atto che - per volontà politica - siamo un'organizzazione che opera in un contesto competitivo e che, di conseguenza, il criterio-guida dell'azione non può che essere l'efficienza. Ma con tutti i costi che questo comporta, inclusa la chiusura di corsi di laurea e la penalizzazione per i CdS con numeri eccessivi di fuori corso.
b) Quanto agli sbocchi occupazionali, l'esperienza che racconti mi sembra emblematica delle distanze fra ciò che si fa, e si può fare, nell'ambito delle "hard sciences" e ciò che si fa e si può fare nell'ambito delle humanities. Anche su questo fronte, i dati di qualunque fonte sono allarmanti, e confermano ciò che intuitivamente sappiamo.
Infine: se le buone pratiche ingegneristiche sono estendibili in ambito umanistico, lo sono per piccoli numeri. L'introduzione del "numero chiuso" mi sembra una implicazione ovvia sul piano dell'efficienza, non però sul più generale piano della politica e della cultura.
Un caro saluto
Guglielmo
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